Arezzo 4 luglio 2011
Al Sindaco del Comune di Arezzo
Piazza della Libertà 1
52100 Arezzo
OGGETTO: OSSERVAZIONE AL PIANO COMPLESSO DI INTERVENTO
“CITTADELLA DEGLI AFFARI” (A.S.I. 3.3 DEL PIANO STRUTTURALE)
adottato nell’adunanza del C.C. del 28/03/2011.
Il sottoscritto Architetto Alessandro Cinelli, nato ad Arezzo il 9/02/1956, residente ad Arezzo in via Guadagnoli 69, C.F. CNLLSN56b09a390L, non in proprio ma in qualità di Presidente di INARSIND Arezzo, Sindacato Nazionale Ingegneri e Architetti, Sezione di Arezzo, con sede in Via Guadagnoli n°69, in relazione all’adozione del Piano Complesso d’Intervento ASI 3.3, Cittadella degli Affari, presenta la seguente osservazione:
OSSERVAZIONE AL PIANO COMPLESSO DI INTERVENTO ASI 3.3, COMPARTO 1, AREA EX LEBOLE
Premessa
Premesso che il PCI dell’area ex Lebole è propedeutico alla redazione di un Piano Attuativo, e perciò non può avere un livello di dettaglio pari a questo, limitandosi ad indicazioni di carattere generale sui criteri da seguire nella redazione del P.A., tuttavia appare evidente che il contenuto di informazioni di questo PCI non è molto superiore a quello del Piano Strutturale, essendo ad esempio del tutto assente, come nel PS stesso, uno studio urbanistico che indichi in maniera almeno schematica, quali dovranno essere le scelte da effettuare per inserire l’area nella trama urbana, in particolare per quanto riguarda il sistema viario.
A nostro parere è invece necessario un salto qualitativo che trasformi realmente l’area da zona specialistica destinata alla produzione a parte integrante della città, dotata di una pluralità di funzioni, le quali necessariamente dovranno avere relazioni con il tessuto urbano circostante.
Manca in particolare nel piano qualsiasi indicazione relativa alle connessioni con gli abitati di Pescaiola, di Fiorentina, con il Centro Affari, con il centro urbano e con la più ampia rete stradale di livello superiore determinata dalla tangenziale e dalla via Fratelli Lebole.
Senza queste indicazioni, preliminari a qualsiasi piano di questa importanza, e proprio perché tali indicazioni mancano del tutto anche nel PS, l’area viene ridotta al livello di una normale e modesta lottizzazione in cui ciò che conta sembrano essere solo le quantità edificatorie, le funzioni, l’indicazione degli standard di verde e parcheggi, una generica richiesta di qualità architettonica pur in presenza, invece, di una scelta tipologica molto forte, impegnativa, dirompente rispetto al paesaggio urbano, e a nostro avviso, sbagliata nelle motivazioni e nel risultato finale, quale quella della verticalità degli edifici residenziali e direzionali.
Se è vero che un PCI nasce dal rapporto pubblico-privato, con l’intenzione, tutta da verificare nei risultati, di redigere un piano che sia effettivamente in grado di armonizzare le esigenze della città, per la parte pubblica, con quelle dell’investitore o degli investitori, per la parte privata, è tuttavia vero che in questo piano il soggetto pubblico, cioè l’Amministrazione Comunale, sembra aver rinunciato alla scelta di indicare una soluzione idonea per la città. L’unica scelta riguarda, appunto, la verticalità, il cambiamento totale di prospettiva nell’ambito di una visione del paesaggio urbano di una città storica come Arezzo passata quasi indenne, salvo eccezioni non proprio esaltanti, alla moda degli edifici alti. E, in verità, anche questa scelta viene giustificata con argomentazioni non solo deboli ma sbagliate nella sostanza, come meglio osserveremo successivamente.
Se è altresì vero che questo PCI non è piano attuativo ma strumento intermedio a questo propedeutico in cui devono necessariamente essere lasciati margini di flessibilità per evitare di porre vincoli che potrebbero inficiare le scelte successive, è altrettanto vero che, in base a quanto precedentemente espresso, sembra mancare anche la prefigurazione di un’idea del ruolo che si intende attribuire all’area, e la mancanza di alcuna indicazione progettuale del tipo di relazione tra l’area stessa e il resto della città ne è la prova più lampante.
Noi riteniamo invece che l’area ex Lebole, in mancanza della possibilità di poter continuare con un’attività produttiva se non pari almeno paragonabile a quella precedente in termini di occupazione, debba qualificarsi come parte integrante della città e come tale debba trasformarsi in un intervento che abbia, nei numeri certo, ma soprattutto nella forma urbana, tutte le caratteristiche tipiche della città tradizionalmente intesa, con una rete viaria permeabile e accessibile dalle aree limitrofe, con isolati edificati a bordo strada, con una grande pluralità di funzioni non tutte rigidamente preordinate, con un disegno pienamente e realmente urbano. Un quartiere che non crei alcuna concorrenzialità al centro storico mediante l’inserimento di grandi centri commerciali ma che invece sia capace di fare concorrenza virtuosa anche al centro storico in termini di vivibilità per i cittadini che in esso lavoreranno o risiederanno e per quelli dei quartieri limitrofi, senza sottovalutare l’importanza che esso potrà assumere come area a supporto degli utenti del Centro Affari e Convegni, in termini di servizi avanzati, accoglienza e ricettività.
Di tutto questo non si riscontra traccia negli elaborati grafici e non si riscontra neppure nelle norme, che si limitano appunto ai dati precedentemente esposti e a quelli che seguiranno con i vari punti delle osservazioni.
La stessa idea di “porta” della città, certamente pertinente, viene di fatto smentita dall’indicazione di porre un parco lungo il Viale Salvemini. Quale immagine urbana può avere un’area che si presenta dietro ad un parco? Il parco isola e separa ancora di più l’area dalla viabilità, mentre sarebbe opportuno fare del tratto di via Salvemini antistante la ex Lebole una strada urbana. Allora sì che un’architettura di qualità contribuirebbe a fare della ex Lebole la nuova Porta di Arezzo dall’autostrada.
Con questa premessa di carattere generale si osservano i seguenti punti:
Osservazione n° 1
Si osserva l’assoluta incongruenza di una Scheda Norma che indica in maniera precisa il numero dei lotti, con tanto di classificazione puntuale degli stessi, con l’indicazione per ciascuno di essi delle quantità edificatorie e delle destinazioni, addirittura con gli interventi edilizi ammissibili su ciascun lotto, come nel Lotto C1.1, l’unico in cui è prevista la ristrutturazione, ma in assenza totale di un allegato grafico che richiami nel disegno i lotti stessi, per cui risulta semplicemente impossibile capire a cosa ci si riferisca. Dove, cosa e quanto sarà possibile ristrutturare, ad esempio, se è impossibile individuare il manufatto oggetto di ristrutturazione? Dove sono collocati i vari lotti le cui quantità e destinazioni sono dettagliatamente descritti?
Non solo: al punto Articolazione in lotti, si indica in nove il numero massimo dei lotti, esattamente quanti sono quelli classificati e descritti nelle Norme. La domanda è: nel caso in cui nel Piano Attuativo successivo si decidesse di prevederne un numero inferiore, il che è evidentemente consentito, come potranno e dovranno essere ridistribuite la quantità edificatorie e le funzioni previste? Certamente non in maniera proporzionale, dato che all’Art. 2, punto 8 si prescrivono “limitati trasferimenti di capacità edificatorie tra comparti e tra i lotti” e dato inoltre che un Piano Attuativo non viene progettato in base a meri criteri di tipo matematico-ragionieristico, ma in base ad un studio di tipo urbanistico che può portare a differenze tra un lotto ed un altro in funzione della loro collocazione rispetto a viabilità di importanza gerarchica diversa.
E’ del tutto evidente la gravità di questa mancata corrispondenza tra indicazione normativa e disegno e tale da rendere il Piano Complesso di fatto non leggibile proprio nell’unica parte approfondita, cioè quantità e funzioni, e quindi con un errore tale da rasentare l’illegittimità. Risulta infatti difficile, se non impossibile, in un documento indeterminato, fare osservazioni su ciò che si dichiara per scritto esserci ma effettivamente non c’è. E’ come se in un PRG tradizionale avessimo una legenda di retini con specifiche norme ma le carte fossero prive dei retini stessi.
Una situazione di questo genere da sola, ancorché sanata con un apposito disegno, potrebbe determinare, a nostro avviso, un messa in discussione del PCI e una sua nuova adozione, potendosi affermare serenamente che in queste condizioni il Piano Complesso d’Intervento è incompleto proprio rispetto alla sua logica interna, a prescindere dai contenuti.
Si richiede quindi:
• che vengano disegnati i lotti su apposito elaborato grafico
• che il disegno dei lotti, che potranno essere formati a loro volta da uno o più isolati, sia improntato ad una forma generata dal tessuto viario principale come meglio specificato nella osservazione n° 2
• che le quantità edificatorie e le destinazioni d’uso non siano specificate in maniera puntuale lotto per lotto ma che si indichino, al massimo, eventuali valori limite per funzione che potranno avere alcuni lotti. Ciò allo scopo evidente di non creare pericolosi e non desiderabili vuoti normativi che lascerebbero ampi margini di discrezionalità nel giudizio, nel caso di diminuzione del numero dei lotti.
Osservazione n° 2
Si richiede che vengano individuate, non in maniera precisa quanto a posizionamento e a dimensioni, ma a livello di linee guida, le viabilità di collegamento con il quartiere di Pescaiola, con quello di Fiorentina, con il Centro Affari e Convegni, con il centro urbano, con l’adiacente via Galvani. Dovrebbero inoltre essere indicate le direzioni di ingresso e di uscita nell’area dal raccordo e le relazioni con questo e con la via Fratelli Lebole. La rete dei collegamenti con la città sarà l’elemento generatore del disegno dei lotti - intesi in senso normativo - e degli isolati - intesi come elemento urbanistico e architettonico del piano. Il disegno preciso della viabilità potrà essere oggetto di modifica e studio più approfondito nel successivo Piano Attuativo. Attuando queste misure il PCI potrà prefigurare un’idea, ancorché generale e non dettagliata, di nuovo quartiere urbano, cosa attualmente del tutto mancante e che non può essere demandato a tempi successivi, pena la sostanziale inutilità di questo passaggio amministrativo.
Osservazione n° 3
Si richiede di limitare l’altezza massima di zona a m 30-35, largamente sufficienti a dotare l’area di qualche edificio-simbolo capace di “segnalare” l’importanza del progetto, senza per questo stravolgere il profilo della città con “oggetti” architettonici che entrino in concorrenza con quelli del centro storico, essendo edifici di 75 metri visibili e percepibili quasi da ogni parte della piana di Arezzo.
La motivazione addotta per la scelta della verticalità, quella cioè che gli edifici che si sviluppano in altezza “riducano l’attuale uso del suolo” è del tutto inconsistente. Si confonde l’uso del suolo con la superficie coperta, laddove poi si prescrivono di realizzare oltre 3 ettari di parcheggi interrati, vale a dire un edificio di 3 ettari sotto terra, illudendosi forse che al piano di campagna si possa realizzare del verde, non tenendo conto delle necessarie aperture di ventilazione e dei problemi che comportano la manutenzione di sistemi di questo genere.
Inoltre gli edifici che definiamo per semplicità “grattacieli”, data la distanza che devono mantenere rispetto agli altri, determinano spazi non di tipo urbano, grandi vuoti destinati all’abbandono e al degrado e sono la negazione stessa della città, proprio nella forma che si sottende con queste norme, vale a dire edifici alti in mezzo al verde. Questa idea da Ville Radieuse ha ormai dichiarato fallimento, andando l’urbanistica contemporanea verso una città compatta, che consente spostamenti pedonali in un ambiente urbano ricco e gradevole. La nuova frontiera della sostenibilità urbanistica è proprio l’alta densità che consente il vero “ risparmio di suolo”, cioè la minore espansione nelle aree agricole. Questo è anche quanto affermato recentemente dall’Assessore Regionale all’Urbanistica Prof. Anna Marson in un documento pubblicato nel sito della Regione Toscana.
Inoltre i “grattacieli” sono per loro natura, gli edifici meno sostenibili dal punto di vista del risparmio energetico, essendo all’opposto totalmente dipendenti dall’energia, dal movimento delle persone a quello dei fluidi, al riscaldamento e raffrescamento. La leggenda in base alla quale si progetterebbero grattacieli autonomi energicamente è, appunto, una leggenda , dato che quello che conta è il consumo a mq di edificio e non il complesso. Il grattacielo è un edificio che è necessariamente protetto esternamente da materiali leggeri ed è perciò privo di massa muraria e quindi, in regime delle temperature non stazionario, totalmente dipendente da apporti di energia esterna per riscaldamento invernale e soprattutto estivo. L’”effetto baracca” è tipico di questo tipo di edificio. Lo sanno bene tutti coloro che hanno uffici rivestiti con materiali di basso spessore e massa insignificante, anche se con un grado di isolamento termico che rispetta la legge.
La scelta del tipo “grattacielo” è la meno ecocompatibile e sostenibile che si possa immaginare.
Firmato:
Alessandro Cinelli Architetto, Presidente Inarsind Arezzo.
Pietro Pagliardini Architetto, Segretario Inarsind Arezzo.
La categoria dei Liberi professionisti
“deve provvedere alla sua difesa con tutti i mezzi più risoluti, attraverso organizzazioni sindacali ad adesione libera,
sottratte ad ogni disciplina e gerarchia statale, limitate ai soli puri professionisti,
ossia a coloro che, unicamente da contratti di opera e mai da remunerazioni a tempo o a stipendio e quindi da lavoro subordinato,
anche se intellettualmente di alto grado, traggono i materiali mezzi della propria sussistenza".
Amadeo Bordiga, cofondatore del Sindacato Ingegneri Liberi Professionisti – Napoli, 1950